15 marzo 2023

 

QUALCHE RIGA PER COMINCIARE

Aldo Badini

 

A un anno dal suo inizio, questa guerra di droni e di trincee macina uomini e materiali, radicalizza gli animi e cambia la politica mondiale. Il lento fluire del tempo storico conosce improvvise accelerazioni: così è stato nel triennio 89-91, quando si sono dissolti l’impero sovietico e la stessa Unione; e così si ripete oggi con l’invasione dell’Ucraina e la fine del mondo a indiscussa egemonia americana. Dal 2022 non si è semplicemente acutizzata la guerra regionale per il controllo del Donbass e della sponda settentrionale del mar Nero, ma si è approfondito il solco tra l’Occidente e la metà del globo che rifiuta di schierarsi.

 

A fronte della coalizione atlantica in sostegno a Kiev, si pone una parte consistente dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina che non accetta di appoggiare l’Ucraina né di sanzionare la Russia. Permane inoltre il fastidio dell’ovest europeo, trascinato controvoglia nella contesa, verso i più bellicosi soci anglo-americani e baltici. Insensibilità verso le sofferenze di un popolo minacciato o memorie storiche e interessi divergenti? Ma c’è anche, soprattutto nei paesi poveri, una diffusa diffidenza verso i volubili difensori della democrazia e dei diritti civili, le cui ingerenze cosiddette umanitarie variano secondo i tempi e i luoghi e durano quanto le convenienze di chi le promuove, come ben sanno i curdi e gli afghani, solo per citare gli ultimi in ordine di tempo tra i sedotti e abbandonati.

 

Non è un caso se anche il pontefice originario del sud del mondo ha ricordato le responsabilità di chi ha lungamente «abbaiato alla porta di Mosca». Né bisogna scordare che nel 1991 il presidente degli Usa George Bush aveva ammonito il parlamento ucraino a non cercare l’indipendenza dalla Russia, e aggiunto che l’America non avrebbe aiutato «coloro che promuovono un nazionalismo suicida, basato sull’odio etnico». Inutile stupirsi: gli interessi mutano e dopo il crollo dell’Urss i fautori del progetto per un nuovo secolo americano intrapresero una politica aggressiva, concretizzatasi in un trentennio di guerre in giro per il mondo e in una ipertrofia della NATO in funzione, difensiva a parole e ostile nei fatti, contro i potenziali nemici vicini e lontani.

 

Niente di strano, allora, che Vladimir Putin e i suoi sodali, memori delle ripetute promesse atlantiche puntualmente disattese a non estendere l’Alleanza agli ex satelliti di Mosca né alle Repubbliche nate dal collasso dell’Urss, abbiano alla fine voluto rendere pan per focaccia agli occidentali, tentando di riprendere il controllo dell’Ucraina gravitante ormai entro l’orbita euro-americana. Il che non giustifica l’invasione, ma consente di inquadrarla in un contesto meno manicheo, dove i buoni stanno tutti da una parte e i reprobi da quella opposta. La storia del 1918 avrebbe dovuto insegnare che non basta sconfiggere il nemico; per vincere la pace occorre rispettarne la dignità e comprenderne le ragioni, pena il rinascere di quello spirito di rivalsa che negli anni ’30 del Novecento animò la Germania nazista.

 

Oggi lo scenario è diverso e Putin non è Hitler, ma il suo revanscismo, alimentato dagli improvvidi vincitori della guerra fredda, se pur comprensibile è ugualmente pericoloso, perché – come allora – vuole ridisegnare confini e cambiare i rapporti di forza. Ma la strada scelta genera esiti imprevedibili e sofferenze certe per tutti.